“Era la prima volta che vedevo dal vivo un gruppo di lavoro che applicava i principi dell’Agile ed ero totalmente affascinata. Partecipavo ai loro incontri settimanali – Retrospective – dove ognuno aveva lo stesso spazio di parola, non solo per dire ciò che aveva completato rispetto a quanto programmato, ma anche per dire quali erano state le sue maggiori difficoltà, come le aveva risolte, a chi aveva chiesto aiuto, quali strumenti erano stati utili, condividere nuove idee che avevano funzionato, proporre qualcosa di nuovo che potesse facilitare il lavoro e ridurre i tempi di realizzazione. E fin qui niente di particolarmente strano per un team di lavoro affiatato che sta realizzando un progetto. Ciò che mi sorprese tantissimo era il fatto che ciascuno diceva anche delle difficoltà superate nei rapporti interpersonali coi colleghi e se ancora qualcosa non funzionava per il verso giusto, insieme si trovava una soluzione. Wow! Nessun risentimento, niente chiacchiericcio in assenza dell’interessato, nessun problema da portare all’attenzione del responsabile e men che meno all’HR. Avevano creato un clima dove ognuno si sentiva libero di parlare apertamente, anche ammettere errori, dichiarare di non conoscere qualcosa, fare domande senza preoccuparsi se fossero considerate banali, proporre nuove idee senza aver paura di poter fare brutta figura o di essere visto come troppo ingerente, far emergere problemi interpersonali con il solo obiettivo di risolverli.”
Ciò che si chiama sicurezza psicologica (Psychological Safety), termine coniato da Emy Edmonson – docente di Harvard – interessata a conoscere i meccanismi interpersonali che caratterizzano le Learning Organisations. Studiando per anni gruppi di lavoro dei più diversi settori merceologici, è arrivata alla conclusione che questo particolare clima rappresenta un pre-requisito per lo sviluppo di organizzazioni agili, cioè organizzazioni che più velocemente mettono in atto comportamenti adattivi al cambiare delle condizioni esterne. In un ambiente sempre più VUCA (Volatility, Uncertainty, Complexity e Ambiguity), dove “the space between problems that arise and our ability to solve them” (The Ingenuity Gap – Thomas Omer Dixon) è sempre crescente, le organizzazioni che perseguono l’apprendimento continuo godono di un importante vantaggio competitivo.
E se ci fermiamo un attimo a pensare, le persone sono gli asset più duttili all’interno delle organizzazioni e fra le organizzazioni, quelle che vivono di lavoro intellettuale, hanno come asset principale proprio le persone. Ma apprendere in età adulta implica esporsi, uscire dalla propria area di comfort per provare qualcosa di nuovo. A seconda della propensione al rischio di ciascun individuo, lo stress associato a questo passaggio può essere più o meno forte ed in ogni caso sappiamo che non è mai nullo. Temiamo di fare brutta figura e di metterci in cattiva luce, di apparire incompetenti. Il nostro cervello in prima istanza rifiuta il cambiamento: è uno sforzo che richiede energia e se possibile lo evita. Tutto è facilitato se invece sappiamo di trovarci in un ambiente non giudicante, dove l’errore è visto come parte dell’apprendimento, dove il rispetto fra le persone ci mette nella condizione di aprirci e proporre nuove idee e con esse contribuire consapevolmente all’innovazione dell’organizzazione e alla sua crescita, dove la fiducia viene continuamente alimentata da rapporti interpersonali trasparenti e genuini. Se smettiamo di preoccuparci di fare brutta figura, ci concentreremo completamente sul prodotto del nostro lavoro.
Attenzione! Non confondiamo un clima psicologicamente sicuro con un clima di eccessiva protezione, dove rischiamo di perdere tempo su aspetti poco rilevanti, per non offendere la sensibilità dell’altro. Nei gruppi di lavoro maturi, si coltiva il disaccordo, ma solo ed esclusivamente per lavorare in modo più efficiente e raggiungere standard più elevati di prodotto o servizio. Le persone che fanno parte di questi gruppi fanno domande, mettono in discussione lo status quo, chiunque “fa challenge” per capire se ciò che stiamo facendo è veramente l’opzione migliore alle condizioni date: perché strategia e vision sono condivise.
La sicurezza psicologica è risultata in cima alla classifica della ricerca condotta da Google per capire cosa rende eccellente un team. Nel 2012 iniziarono la ricerca che durò 2 anni, coinvolse 180 team e un totale di 37.000 collaboratori. Ecco cosa scoprirono: i gruppi di lavoro che hanno un elevato livello di Psychological Safety raggiungono un grado di efficienza doppia rispetto alla media degli altri team e le persone che ne fanno parte difficilmente abbandonano l’azienda, dimostrando un importante livello di engagement, derivante da soddisfazione professionale e personale oltre che senso di appartenenza.
“Costruisci l’ambiente per avere le persone che desideri!”
Sembra essere la lezione che possiamo imparare da questa storia. Le competenze non sono sufficienti a fare un team performante. Secondo l’equazione di Kurt Lewin il comportamento della persona è in funzione della sua personalità (intesa come risultato finale della sua esperienza) e motivazione da un lato, e dall’ambiente (fisico e sociale) che la circonda, dall’altro. La collaborazione è parte integrante delle organizzazioni, ma è anche l’origine di numerose difficoltà nei rapporti interpersonali. Una delle sfide più importanti delle organizzazioni è la capacità di affrontare e risolvere situazioni interpersonali complesse che derivano da dichiarazioni di incertezza, oppure obiezioni e criticità, o semplicemente punti di vista divergenti.
Come fare a coltivare un ambiente lavorativo che permetta lo sviluppo di sicurezza psicologica? Sono le relazioni fra persone a giocare un ruolo importante. Nelle ricerche svolte da Amy Edmonson all’interno della stessa organizzazione e quindi della stessa cultura aziendale, il livello di Psychological Safety poteva variare da team a team. Questo a dimostrazione dell’importante ruolo svolto dai leader.
Cosa devono saper fare? Devono sapersi mostrare vulnerabili, dichiarare di non sapere, di aver sbagliato, di aver bisogno di aiuto. In questo modo sviluppano rapporti empatici, impostano relazioni di interdipendenza e collaborazione, ampliando gli spazi d’azione per sé e per gli altri. Ricercano attivamente il punto di vista degli altri, facendo domande dirette e stanando anche chi è più introverso. Sanno comprendere gli stati d’animo degli altri e anche in questo caso fanno domande per comprendere i problemi e risolverli insieme. Sono generosi nel dare feedback e al tempo stesso ne richiedono, in un’ottica di apprendimento continuo. Sanno ascoltare e accogliere punti di vista diversi dal proprio se funzionali al risultato da raggiungere. Mettono a disposizione del team la loro competenza, sbloccano situazioni difficili, mettono gli altri nelle condizioni di esprimere il meglio delle loro possibilità. Permettono alle persone di sbagliare, prendendosi dei rischi calcolati. Rendono esplicite le regole della Sicurezza Psicologica, condividendole e spiegandone la finalità.
Ogni collaboratore può giocare la sua parte mostrando coraggio e aprendosi, dichiarando di non sapere, facendo domande, ammettendo gli errori, studiando nuove soluzioni, proponendo le proprie idee, sfidando la massima “si è sempre fatto così”, condividendo le proprie conoscenze con gli altri, assumendosi le proprie responsabilità, richiedendo feedback.
Come ricorda la stessa Edmonson, la sicurezza psicologica da sola non è risolutiva per lo sviluppo di team collaborativi e performanti. Servono tutti gli altri ingredienti: strategia, vision, obiettivi chiari, supportive leadership. Aggiungo che la funzione HR può dare un grande contributo, ripensando al proprio ruolo in un’ottica agile.