Nell’epoca di Greta Thunberg e del cambiamento climatico, nuovi lemmi e nuovi concetti acquistano spazio nelle nostre conversazioni. Nuove parole che raccontano di nuove lenti per guardare, interpretare e decifrare il mondo. Tra queste ultime sostenibilità, impatto e innovazione sociale sono tra le più utili per leggere le trasformazioni del contemporaneo. Un hype che nasce ovviamente da lontano: già nel 1972 il Club Roma in “Limit to Growth” aveva parlato di innovazione sociale descrivendola come quelle serie di innovazioni capaci di tenere insieme sostenibilità ambientale, sociale e tecnologica.
Un approccio che, anche alla luce dei più accreditati orientamenti in dottrina, guarda all’innovazione sociale come processi o come flussi e non come prodotti tout court. Flussi che ripensano e ridefiniscono lo spazio sociale aumentando la capacitazione dei singoli e/o dei gruppi sociali e aprendo così nuove aree di discussione e nuove opportunità di modificazione della realtà così come la conosciamo.
Opportunità che stanno ormai contaminando anche i settori tradizionalmente più conservativi, pensiamo alla finanza appunto, dove cresce la quota di capitali e investitori orientati a contemperare il sacro Graal del Ritorno sull’Investimento con la Shangri-la, la terra leggendaria, dell’impatto sociale. Una contraddizione fino a qualche anno fa ritenuta insuperabile e che ora trova (in)sospettabili elementi di conciliazione e concordia.
Di cosa parliamo quando parliamo di Finanza d’impatto?
Citare Raymond Carver per parlare di Finanza d’impatto fa un certo effetto, eppure l’idea cardine dei diciassette racconti del grande scrittore americano, che cioè di certe cose che esistono (e contano) si possa pensare e parlare anche se non si sa esattamente di cosa si parla, è perfettamente calzante. Nell’epoca dell’ingegnosità collettiva, le grandi narrazioni si costruiscono infatti per difetto: il presidio dei vari domini è sempre meno certo, sempre più governato dai flussi di informazione che senza soluzione di continuità modellano i confini necessariamente mobili delle varie discipline. In questo senso la definizione più accreditata è quella proposta da Global Impact Investing Network (GIIN) nel documento “Introducing the Impact Investing Benchmark”.
“Gli investimenti di impatto sono operati da fondi dedicati o da altri soggetti interessati al fine di generare un impatto sociale e ambientale in aggiunta a un ritorno finanziario.”
Si tratta dunque di un segmento di finanza caratterizzato da una condivisione del rischio di investimento, da una dichiarata intenzionalità di produrre un impatto positivo, dall’esigenza di remunerare gli investitori e dalla necessità di esplicitare, alla luce di metriche e indicatori condivisi, il valore non monetario prodotto.
Un’esperienza quella della finanza d’impatto che a 10 anni dall’esordio ha raggiunto una maturità sia in termini di strumenti utilizzati che di risorse concretamente allocate e che, come emerso al summit globale di Nuova Delhi dello scorso ottobre, è giunta ora a un turning point: adattare cioè il canovaccio di matrice anglosassone, fortemente incentrato sulla dimensione finanziaria, da un lato all’approccio più rigoroso delle economie dell’Europa continentale, più avvezze a modelli storici di economia sociale e, soprattutto, più inclini a principi regolamentari basati sull’esperienza dei modelli disciplinati dall’UE (come nel caso dei fondi EUSEF ed EUVECA), dall’altro con le esigenze di supporto a modelli di business inclusivi e generativi di sviluppo sociale ed economico, come nel caso del Sud America e dell’Africa. Un’urgenza di contaminazione e “localizzazione” che riflette la stessa genesi dell’Impact Investing, che si sviluppa in un dialogo e confronto serrato tra player della filantropia, tradizionali istituti finanziari e PA, come si evince da questo grafico (Fonte: PlusValue)
L’importanza dell’ecosistema
In quest’ottica possiamo leggere e interpretare la finanza d’impatto come un’infrastruttura leggera, ovvero il capitale sociale fisso necessario per veicolare flussi di risorse per generare il cambiamento auspicato nelle comunità e sui territori. Una dotazione strumentale funzionale ad abilitare un ecosistema composto da una pluralità di attori (enti finanziatori, service provider, enti valutatori, PA) che necessitano, per dispiegare pienamente l’impatto auspicato, di costruire una grammatica comune che possa diminuire le asimmetrie informative tra i diversi player, allineare interessi pubblici e privati, generare risparmi per la PA , e promuovere l’innovazione. Una sfida ancora lontana dall’essere vinta e che richiede uno sforzo di sistema, una visione complessiva e una serie di misure abilitanti in grado di aumentare la scalabilità e la replicabilità delle esperienze. E che necessita soprattutto di ripensare il ruolo della finanza nella nostra società, sottraendola a semplificazioni mainstream, rafforzare le competenze dal lato della domanda (in primis imprese sociali, naturali, rectius: potenziali, destinatari delle misure), costruire meccanismi di incentivo lato offerta (Istituti Finanziari in senso lato).
Da questo punto di vista in Italia siamo ancora ai primi passi, ma non mancano esperienze in tal senso come ad esempio Social Impact Italia, l’iniziativa promossa di concerto tra FEI e Cassa Depositi e Prestiti, pensata per sostenere l’economia inclusiva attraverso un fondo di 100 milioni di euro o la presenza di Oltre Venture, il primo fondo di Impact Investing del Belpaese. Il tutto mentre sul fronte privato, o meglio della domanda, nuove generazioni di imprese sociali guardano al tema dell’impatto come a una leva per promuovere forme più avanzate di sostenibilità.
Il progetto Open Impact
Ridare valore al valore. Questa la mission di Open Impact, la prima piattaforma digitale di valutazione d’impatto promossa da ULIS, società cooperativa per rafforzare la sostenibilità economica delle imprese sociali, dare evidenza degli effetti delle proprie attività sui beneficiari diretti e indiretti, attraverso una puntuale misurazione e valutazione d’impatto, incorporare questi elementi nella propria strategia di comunicazione e sviluppo. E rappresentare il trait-d’union tra il mondo della finanza d’impatto e il segmento delle imprese sociali. Una piattaforma che incrocia due linee di tendenze emergenti: l’urgenza sociale e politica di quantificare e remunerare il valore tradizionalmente non contemplato dalle metriche finanziarie e la progressiva digitalizzazione di servizi e attività (il famoso “software is eating the world” dell’ex Direttore di Wired Marc Andreessen ).
Dall’incrocio di questi due orientamenti nasce così la proposta di valore di Open Impact: traslare in digitale un’attività ad oggi fortemente analogica, abbattendo radicalmente i costi di informazione e coordinamento, costruire un’interlocuzione avanzata tra soggetti strutturalmente vocati all’impatto e i possibili finanziatori, promuovere nuove risposte a problemi complessi. For the many, not the few.