L’Italia può rappresentare sicuramente la terra promessa del cicloturista. Clima, storia, paesaggio e buon cibo possono accompagnare il viaggiatore in una esperienza estremamente variegata e coinvolgente. Lo sanno i tanti stranieri che da anni si avventurano lungo le strade italiane. Affascinati dai luoghi, coccolati dal clima, ingolositi dal cibo, ma sorpresi da quanto poco ci sia e da quanto possa essere ancora fatto per accogliere questa fetta, sempre crescente, di turismo. In Italia infatti, fino a ora, non è esistito un piano di promozione del cicloturismo, anche se gli esempi virtuosi non mancano.
I primi ad accorgersi della necessità di individuare, realizzare e promuovere i percorsi ciclabili sono stati i parchi regionali. La realizzazione di una rete di percorsi nei territori protetti è stata vista come lo strumento più efficace per convincere i cittadini della necessità di protezione dei territori naturali. I parchi hanno, in questo senso, promosso la “riscoperta delle meraviglie” dietro casa e, attraverso le ciclabili, le hanno fatte fruire ricreando un senso di appartenenza e identità verso il proprio territorio che, negli anni della forte industrializzazione, era andato perduto. Successivamente le provincie e le comunità montane hanno promosso la realizzazione di itinerari cicloturistici recuperando una viabilità minore esistente, realizzando interventi di ricucitura e messa in sicurezza delle intersezioni con la viabilità automobilistica.
In questo quadro alcune provincie, come ad esempio quella di Trento, ne hanno fatto un elemento di promozione turistica forte anche nel senso della destagionalità e della delocalizzazione della offerta turistica. Le ciclabili realizzate lungo le valli trentine infatti raggiungono il doppio obiettivo di portare turisti nelle zone solitamente dimenticate dai grandi flussi, come ad esempio i fondovalle e le aree agricole, e differenziano il calendario delle presenze, fino a qualche anno fa concentrato soprattutto nei mesi invernali e nella parte centrale dell’estate.
Progettare ciclabilità per il cicloturismo vuol dire rendersi conto che il nostro territorio è denso di tracciati, infrastrutture, piccole strade che sono in parte utilizzate o del tutto abbandonate e che, una volta valorizzate, rappresentano l’ideale percorso per la riscoperta del territorio e paesaggio. Argini, strade vicinali, strade dismesse, ferrovie abbandonate diventano preziosi filamenti per tessere delle reti ciclabili di grande valore ambientale.
Gli interventi si devono, in questo senso, concentrare sulla sistemazione dei fondi, la messa in sicurezza dei tratti esposti, ma anche sulla realizzazione di una segnaletica chiara e continua che renda facile orientarsi e piacevole leggere i segni storici e ambientali del territorio. Quando la scelta di un itinerario funziona si pone il problema del dimensionamento della struttura. In Italia, la legge di riferimento, oltre al codice della strada, è la 557/99 che stabilisce dimensioni minime in relazione alla tipologia. La pista ciclabile bidirezionale ha quindi larghezza minima di 2,50 m. Questo standard minimo è diventato, nell’applicazione concreta, quasi sempre un limite massimo oltre il quale poche progettazioni si sono spinte. In realtà, un asse ciclabile per essere efficace deve consentire di essere percorso da tutte le tipologie di bici e da tutti gli utenti (cicloturista, famiglia con bambini, bici con carrello, diversamente abili con i propri mezzi, etc.). Appare chiaro che la pista deve consentire il sorpasso di ciclisti lenti almeno alternativamente nei due sensi. Questa semplice necessità porta la larghezza minima di esercizio ad almeno 3,50-4,00, che andrà ancora aumentata nel caso ci sia un flusso pedonale consistente.
Alcune recenti realizzazioni italiane stanno andando fortunatamente in questo senso. La pista ciclabile dei Fiori da San Lorenzo a Mare a Ospedaletti, che attraversa Sanremo, ha una carreggiata ciclabile di circa 3 metri affiancata a uno spazio pedonale di m 1,50.
In realizzazioni come queste il grande successo ha messo in luce subito due aspetti: l’immediato ritorno economico dell’investimento in termini di indotto turistico ed una saturazione per eccessivo uso nei periodi estivi. Ha reso altresì chiaro che interventi di buona qualità (e relativi costi di realizzazione consistenti) rispondono alla richiesta del cicloturista contemporaneo. Queste realizzazioni e i loro successi, insieme ai cambiamenti culturali e ambientali in corso, hanno inoltre reso maturo il tempo per fare un salto importante di scala.
Fino a oggi i grandi esempi storici esteri, come la ormai mitica ciclovia del Danubio o della Drava, ma anche i più recenti Parigi-Londra, sono sempre stati da noi pensati come esempi fantastici ma irraggiungibili. In realtà anche in Italia questa visione si sta diffondendo e concretizzando. Il progetto Bicitalia, elaborato da Fiab (Federazione Italiana Amici della bicicletta), immagina una rete nazionale di ciclovie turistiche di oltre 20.000 km che innervi tutto il territorio nazionale. Su questa maglia il governo ha, per la prima volta, previsto un piano di finanziamento per la realizzazione del “Sistema delle Ciclovie Turistiche Nazionali”. Dieci ciclovie previste, da Vento (Venezia-Torino lungo il Po) alla ciclopista del Sole (da Brennero a Roma, finanziata per ora fino a Firenze), dall’anello del Garda alla pista dell’acquedotto pugliese, che porteranno un impegno finanziario di 370 milioni nei prossimi 5 anni. Sicuramente un’occasione storica per sviluppare nuove professionalità tecniche e recuperare quel gap che sempre ci ha contraddistinto rispetto ai paesi d’Europa ciclisticamente più avanzati.