Nel loro libro “Frugal innovation. Come fare di più con meno” (Rubbettino, 2016), N. Radjou e J. Prabhu sostengono l’innovazione frugale sia guidata da sei principi. Tra questi credo i più interessanti siano la capacità di creare soluzioni sostenibili e di co-creare valore con gli stakeholder. Operando nel settore delle infrastrutture, questi due principi guidano costantemente il mio lavoro come ingegnere progettista. Oggi le società di ingegneria progettano opere che resteranno sul nostro pianeta per i prossimi 50 o 100 anni e devono fare i conti con temi quali la scarsità di risorse e la necessità di integrare vie di flusso (persone, merci, energia, informazione) in territori fortemente antropizzati. Per questo genere di progetti, dal mio punto di vista è fondamentale utilizzare, per esempio, materiali e procedimenti costruttivi che abbiano il più basso impatto possibile sull’ambiente e che possano essere trasformati o riutilizzati, secondo la logica dell’economia circolare: si tratta di riuscire a fare di più con meno.
Ma proviamo a procedere con ordine. Vediamo più in dettaglio i sei cardini di questo metodo volto a favorire l’innovazione frugale.
Coinvolgere e ripetere, il primo dei sei punti, richiede di coinvolgere i propri clienti, committenti, stakeholders nel procedimento creativo, partendo dall’osservazione del mondo in cui operano (gli autori sottolineano che si tratta dello stesso in cui operiamo noi stessi!). È come lanciarsi in un processo di ricerca e sviluppo, ma ponendosi nella prospettiva di guardarsi intorno come in un laboratorio senza pareti e senza macchinari: l’intento è quello di focalizzarsi sugli ingredienti e gli elementi base esplorando il nostro ambiente naturale e quello dei nostri clienti, cercando le ragioni di un prodotto o di un servizio innovativo fra le esigenze più dirette ed elementari del nostro contesto di mercato. In questo senso ogni opportunità di incontro è buona, dalla collaborazione diretta al crowdsharing, dalla partnership al networking esteso, dall’analisi di pacchi di big data, al laser-focus di dettaglio su un processo produttivo o un meccanismo sociologico critico. L’importante è mettere il proprio committente al centro del suo ambiente naturale e cercare.
A questo punto bisogna essere abbastanza agili da cogliere un’opportunità al volo. Di principio dobbiamo sempre essere capaci di fare qualcosa, il generalismo uccide; dobbiamo essere in grado di intervenire sulla supply chain di settore e avere il controllo (nel senso della conoscenza) di tutte le fasi di produzione: è solo così che potremo intervenire anche sui costi, riducendoli. Non ci sono preconcetti né ricette: si può fare tutto in casa ma anche condividere parti del processo produttivo, l’importante è restare padroni della propria idea, essere locali, muoversi nel proprio network, favorire la vicinanza e la prossimità. Inevitabilmente, in questo sforzo di accorciare le distanze fra noi, il nostro prodotto e il cliente, una componente essenziale la gioca l’integrazione stretta fra logistica e produzione: per essere in grado di rispondere più velocemente e efficacemente alla domanda. È chiaro che un passo metodologico di questo genere si porta dietro una componente di destrutturazione e semplificazione della propria organizzazione alla quale dobbiamo essere preparati. Siamo sulla strada della frugalità, del resto.
Diciamo che, fin a qui, la lettura del libro non mi ha spiazzato (al di là di una sorprendente lucidità metodologica). Ma adesso arriva la parte che mi ha toccato di più come progettista infrastrutturale. Il progetto di una innovazione frugale deve privilegiare soluzioni sostenibili. Anche senza parlare necessariamente di ecodesign o esperienze simili, la nostra attenzione deve comunque volgersi alla riprogettazione o alla reingegnerizzazione in chiave di sostenibilità dei processi che portano ai nostri prodotti e servizi (sostenibilità nel senso di efficienza, integrazione nell’ambiente, utilità per la comunità). L’innovazione si può fare intervenendo su parti di un ciclo produttivo, su aspetti specifici di una infrastruttura. Si può risparmiare energia, acqua, aumentare al sicurezza di un prodotto ecc. In questo senso, come dicevamo all’inizio, ci ricolleghiamo ai principi dell’economia circolare, del cradle to cradle, dell’incremento della resilienza, dello zero waste: tutte le ondate metodologiche generate dalla controcultura green di Stewart Brand. Sono argomenti di cui sentiamo ormai parlare sempre più spesso, ma mai all’interno di un framework così ben argomentato. Possiamo estendere il concetto di sostenibilità, integrandolo con accessibilità, con affidabilità. In fondo il riuso (riutilizzo) così spesso menzionato può anche non richiedere per forza la demolizione come punto di partenza.
Si può riciclare prima della fine del ciclo di vita, e allora ecco che con la frugal innovation possiamo innescare una economia a spirale, oltre che circolare. Inneschiamo, cioè, dei piccoli vortici di frugalità circolare dentro il cerchio più ampio dell’allungamento della vita di progetto dei prodotti. Infine una puntualizzazione. Anche quello che per noi è scarto o rifiuto, per qualcun altro può diventare una opportunità: abbiamo mai analizzato quello che consideriamo il prodotto di scarto del nostro processo produttivo?
Progettiamo prodotti multipurpose, servizi per più stakeholders, infrastrutture che servono più flussi (merci, persone, energia, idee, risorse…), prodotti che sono impostati per evolversi con i bisogni del cliente, o infrastrutture capaci di adattarsi alla variazione della domanda con una offerta agile e flessibile! In un certo senso, stiamo aprendo la progettazione all’integrazione del suo oggetto nell’ecosistema a cui è destinato, inneschiamo un processo di feedback attivo anziché una oggettualizzazione passiva. Progettare per l’inserimento in un ecosistema, non è una cosa da poco.
Tradizionalmente siamo stati abituati all’idea di seguire le esigenze del cliente, di metterci in linea con i suoi bisogni, l’abbiamo già detto: conoscere l’ambiente in cui il cliente si muove. Ma possiamo fare di più. Attraverso la nostra presenza di soggetti attivi nel mercato possiamo influire (gli autori dicono addirittura shape, plasmare) sulle riflessioni e sul comportamento dei clienti e dei committenti facendo loro intravedere strade che permettono di giungere più rapidamente (o più sostenibilmente, ecc.) ai loro obbiettivi.
Di qui una apertura alla comunicazione formale e informale, alla creazione di gruppi misti di lavoro, alla co-creazione di linee guida, di normative ecc., piattaforme peer-to-peer, al crowd-funding e al crowd-sourcing. E infatti il quinto cardine è la co-creazione ed è fondamentale far giocare agli stakeholders e ai committenti ruoli diversi, farli sognare, validare, creare, evangelizzare e diffondere, rappresentare, correggere… e vedere cosa succede. Attenzione: qui non si parla di manipolazione, si parla di collaborazione (siamo altruisti nati, rileggetevi M.Tomasello).
I compagni di viaggio diventano, allora, essenziali per il nostro percorso verso l’innovazione. Nel nostro network ecosistemico privilegiamo partners con cui è più facile affrontare nuovi percorsi, che sono disposti a investire in un’indagine o in una ricerca. Cerchiamo di conoscere guru e pensatori che hanno un punto di vista diverso dal nostro, proponiamo ai nostri competitors partnership per raggiungere nuovi prodotti o nuovi servizi che ci vedano collaborare anziché ostacolarci a vicenda. Un buon compagno di viaggio può valere la pena della condivisione di parti o di aspetti critici della supply chain, o addirittura di asset e può, quindi, darci la possibilità di fare delle ottimizzazioni o di dar luogo a risparmi importanti (che da soli non avremmo ottenuto). È una forma di iper-collaborazione quella cui dobbiamo tendere, anche nella direzione della collaborazione sociale (mercato allargato) del coinvolgimento volontaristico. Bisogna essere disposti a dare un valore al capitale culturale che riusciamo a mobilitare.
Chiudo con una considerazione legata all’attualità normativa italiana. Una applicazione pratica nella direzione di quanto detto fin qui ci viene, inoltre, dal recentissimo e innovativo Codice degli Appalti (D.Lgs 50/2016). Questa norma indica che le infrastrutture devono essere utili, leggere e condivise, ovvero progettate coinvolgendo tutti gli stakeholder (a partire dalle Istituzioni locali e dai cittadini), permettendo loro di prendere parte al disegno del futuro dell’ambiente in cui vivono e lavorano. È un elemento importante dal punto di vista di una norma che si pone il problema di garantire un lascito generazionale di valore.
È anche di questo che si parlerà con i Corporate Responsibility Managers delle principali banche italiane nel corso del CSR Forum 2016 di ABI (Associazione Bancaria Italiana) il prossimo 1 dicembre. I temi della sostenibilità declinata in maniera più estesa in termini di cura per le regole, per il lascito generazionale, per il lavoro delle persone trovano nei principi dell’innovazione frugale una piattaforma di sviluppo essenziale.
Per il nostro mestiere, l’innovazione passa anche attraverso la riprogettazione e la trasformazione del patrimonio di asset che già abbiamo e che sono già di fronte a noi, e non solo da grandi investimenti nell’high-tech o nei mega-processi industriali.