Il secolo dodicesimo rappresenta un crocevia sottovalutato dalla cultura del progetto, che spesso preferisce concentrarsi sui fasti rinascimentali. Quattrocento anni prima che le corti aristocratiche italiane istituissero un modello di collaborazione tra mecenati e artisti fondato sulla collaborazione tra il ricco e il creativo, gli statuti comunali stabilivano una forma di convivenza tra diversi del tutto priva di precedenti. Non si era mai udito, nell’intera evoluzione delle vicende umane, che il semplice gesto dell’abitare urbano determinasse un diritto superiore a quello della nascita. Sin dalla notte dei tempi, e ancora oggi al di fuori del contesto culturale occidentale, le persone rimangono doverosamente quello che nascono, per ceto sociale, provenienza famigliare o appartenenza religiosa. Soltanto in Europa, e soltanto a partire dal secolo dodicesimo, a chiunque è virtualmente concesso il diritto di diventare qualcun altro, a condizione di abitare una casa di città.
Uscito indenne dalla soglia simbolica dell’anno Mille, l’immaginario europeo impiega nemmeno un secolo per ripristinare quel peculiare entusiasmo per l’abitare che le culture antiche avevano insegnato. Ma il ripristino si trasforma subito in reinterpretazione radicale: a greci, arabi e romani non era mai saltato in testa che le persone potessero servirsi della città per affrancarsi dal proprio destino. Al contrario, a chi abita o possiede una casa all’interno delle mura cittadine, il comune medievale garantisce il diritto di voto, indipendentemente da ogni altro tratto esistenziale. Attraverso il riconoscimento di una identità autodeterminata (“io sono quello che faccio, la mia nascita non mi rappresenta appieno; io appartengo alla mia città, non alla mia famiglia”), l’autorità comunale sancisce una parità universale: chiunque può essere eletto a rappresentare i propri concittadini, se questi ultimi gli riconoscono le doti necessarie a farlo.
Lungi dal costituire un semplice provvedimento amministrativo, la svolta della libera cittadinanza medievale determina una regola priva di eccezioni, che ancora oggi tutti noi rispettiamo: l’identità di ognuno è legata a una e una sola città. Potremo andarcene a nostro piacimento, pur di eleggere a nostra residenza la città che riteniamo rappresentarci meglio. In tutta Europa, per tutte le donne e tutte gli uomini, da mille anni, costruirsi un’identità significa agire all’interno di uno specifico contesto urbano.
La creazione del libero Comune quale riferimento prioritario, avvenuta nel nostro continente pressoché ovunque nell’arco di due generazioni, determina l’apertura improvvisa e tumultuosa di una rete di flussi. La caduta di Roma aveva condotto, a partire dal secolo quinto, allo sfaldamento delle infrastrutture viarie, di cui l’impero si era servito per costellare il mondo di occasioni di scambio. Per quasi sei secoli c’era poi stato ben poco da scambiare, sino a quando non si era sparsa la voce, con una rapidità che oggi farebbe impallidire i social network, che “la città rende liberi”.
Ed ecco quindi che i flussi riprendono il proprio corso, più impetuosamente che mai. Flussi di corpi: contadini che abbandonano le terre coltivate, per cercare fortuna in città; chierici che vagano di scuola in scuola, per ottenere gl’insegnamenti migliori. Flussi di merci: vuoti urbani che si trasformano in piazze, per offrire ai mercati l’accoglienza necessaria; isterie collettive per prodotti esotici, che giungono in città dopo tragitti ampi quanto il disco terrestre. E soprattutto flussi d’idee, perché l’invenzione della modernità, che ha luogo proprio nel comune medievale, spalanca al sapere orizzonti che sino ad allora nessuno aveva osato esplorare. Svincolatesi dai corpi umani, che da sempre ne avevano limitato il nomadismo, le idee si depositano su una carta leggerissima ed efficientissima (l’invenzione del libro portatile risale a sua volta al secolo dodicesimo), e prendono così a fluttuare in ogni direzione, per sancire la nascita di una complessità che da allora non ha cessato d’ispessirsi. Flussi di corpi, di merci e d’idee, non diversamente da quanto accade oggi: migrazioni imprevedibili, scambi commerciali governati da leggi imperscrutabili, saperi che s’incrociano e si rinnovano per rendere antiquati i sapienti più avveduti.
Sono mille anni che ai cittadini europei risulta evidente il valore generativo dei flussi, la fertilità che si manifesta nel movimento e nello scambio. Se la cultura del progetto saprà riconoscere le radici storiche di questa fluttuazione universale, riuscirà ad affrontare meglio le difficoltà che i flussi le impongono, oggi che i corpi, le merci e le idee sono in grado di scorrere a velocità vertiginose. L’insegnamento che giunge dai progettisti medievali è articolato eppure inequivocabile: per governare un flusso occorre riconoscere gli argini più adatti a incanalare un movimento che non è mai possibile prefigurare per intero. Si tratta di dare forma a casseformi che si rivelino sufficientemente plastiche per adeguarsi ai cambiamenti cui i flussi si piegano inesorabilmente, per lo più impercettibilmente. Perché il progetto dei flussi è il progetto di un divenire, non di una essenza.